Questa è la storia del gol più bello del mondo, mai convalidato, ma passato alla storia come uno dei capolavori più iconici della storia del calcio. Siamo in Giappone, lo scenario è inaspettato ma il palcoscenico è di quelli prestigiosi: 8 dicembre 1985, si gioca la Toyota Cup, meglio conosciuta come la finale della Coppa Intercontinentale.

Per chi non lo sapesse, l’Intercontinentale era - a suo tempo - il Mondiale per Club di oggi, tanto da essere equiparata dalla Fifa - nel 2017 - al torneo stesso che oggi assegna il titolo mondiale per club. In principio, il nome completo dato alla competizione era “Coppa Intercontinentale dei Club Campioni”, ed era una manifestazione organizzata ufficialmente dall’Uefa e dalla Conmebol, le due federazioni continentali di Europa e Sudamerica.

Come detto, si gioca a Tokyo. Il fuso orario costringe gli sportivi italiani a rimettere la sveglia alle 4 di notte per vedere il calcio d’inizio di Argentinos Juniors-Juventus.

I rivali argentini

La squadra sudamericana ha vinto la Coppa Libertadores contro i colombiani dell’America de Calì; la vera forza degli argentini è la resilienza, sono una squadra tosta - solida - con quel tocco di talento rioplatense che non guasta. Il leader della difesa è Jorge Olguin, ha già vinto il Mondiale del 1978 con l’Argentina, e ora cerca di bissare il successo con la squadra di club.

In mezzo al campo c’è Sergio Batista: lui il Mondiale lo vincerà nel 1986 - con Maradona leader maximo - ma deve aspettare ancora sette mesi prima di alzare al cielo la coppa del mondo. Per il momento si deve accontentare - si fa per dire - di giocarsi la finale contro la Juventus. Sergio Batista è uno dei cinque rigoristi che hanno regalato la coppa Libertadores all’Argentinos Juniors; la sfida di andata la vincono gli argentini, quella di ritorno i colombiani: per assegnare la coppa è necessario arrivare ai calci di rigore. Gli argentini li mettono tutti, i colombiani sbagliano l’ultimo.

Dall’altra parte c’è la Juventus. Finale controversa quella vinta dai bianconeri contro il Liverpool in Coppa dei Campioni: della notte dell’Heysel - purtroppo - conosciamo fin troppi particolari. La Juve gioca, è costretta giocare contro la volontà dell’Avvocato, su imposizione delle autorità belghe. E vince. Con un rigore che non è un rigore. Ma Platini, non si fa pregare due volte: palla da una parte, Grobelaar dall’altra.

Il fuoriclasse francese è il protagonista della nostra storia, perché è lui che segna il gol più bello della storia, che verrà annullato. L’arbitro tedesco Volker Roth dovrebbe essere condannato per un crimine contro il patrimonio mondiale della bellezza. Perché quello che combina Michael Platini - francese con cromosomi italiani - è qualcosa di difficilmente ripetibile.

Alla vigilia della finale, la stampa internazionale aveva acceso il duello con l’argentino Claudio Daniel Borghi che verrà sedotto e abbandonato dal Milan di Berlusconi; Berlusconi ama Borghi, Borghi ama il Milan. Ma Arrigo da Fusignano è un prete che non canta messa, non celebra funzioni, tanto meno i matrimoni.

Calcio d'inizio

Noi torniamo dentro l’alba italiana, dentro quella finale disputata allo stadio di Tokyo, con oltre sessanta mila spettatori, tutti equipaggiati con delle trombette che turbano il collegamento televisivo con un incessante - molesto - suono insopportabile. La partita si gioca su un campo malconcio, a Tokyo piove da giorni e la sfida sembra addirittura a rischio: alla fine si gioca.

Lo spettacolo, nonostante le condizioni del terreno, è accettabile; il gioco è duro, ma non scorretto, la partita - inizialmente bloccata - offre nella ripresa le azioni migliori: quattro gol, e un capolavoro: passano in vantaggio, a sorpresa per le scommesse calcio gli argentini con il gol dell'attaccante Carlos Ereros...

Minuto sessantanove. Corner per la Juventus, dalla bandierina calcia Massimo Mauro. La palla viene allontanata dalla difesa argentina, Bonini con un colpo di testa la rimette verso il centro dell’area e qui, monsieur Michael Platini, ricama un capolavoro che resterà nella storia; stop di petto al limite dell’area, sombrero con il piede destro sulla testa di Pavoni e tiro al volo di sinistro in diagonale che non lascia scampo al portiere Vidallé.

 

I giapponesi esultano, e con loro milioni di italiani che in quel momento sono davanti alla televisione. L’estasi dura un attimo. Il tempo di percepire l’arbitro tedesco Volker Roth che - sul dischetto - anziché indicare il centro del campo, concede un calcio di punizione per l’Argentino Juniors per una posizione irregolare di Brio. Fuorigioco inesistente. Platini si guarda intorno incredulo, si mette le mani sulla fronte, poi dietro la nuca. E quando capisce, finge di svenire, va giù e si sdraia per terra - su un fianco, sorreggendosi la testa con la mano sinistra.

Il campione francese sembra Paolina Borghese scolpita da Antonio Canova; e come quel blocco di marmo sapientemente sagomato dall’artista trevigiano, resterà nella storia. E’ un gol talmente bello che diventa - in un istante - inafferrabile. Non c’è negli almanacchi, non c’è nei tabellini. Ma resta scolpito nella memoria degli amanti del calcio, come una stella cometa, passata a illuminare una fredda notte di dicembre.

 

Due indizi fanno una prova

Del “criminale” Volker Roth sappiamo poco. Ha passato la vita a vendere articoli sanitari - e questa sembra essere la giusta condanna piovuta giù dal cielo - ma la cosa clamorosamente curiosa è che - nel suo fischiettare per i campi di mezzo mondo - il tedesco aveva già colpito, sfregiando la bellezza calcistica. Anno di grazia 1984, mese di ottobre. A San Siro l’Inter sfida gli scozzesi dei Rangers di Glasgow nel secondo turno della Coppa Uefa. Anche qui, la fattura del gol è di filigrana dorata: Karl-Heinz Rummenigge - per farla breve - fa con il destro quello che Gigi Riva ha fatto qualche anno prima contro il Vicenza col piede mancino.

E’ una sequenza esaltante, una girata al volo di una bellezza barbara. Volker Roth annulla: gioco pericoloso! Rummenigge non fa una mossa: è teutonico, è gli ordini sono ordini. Non ha fantasia, non é ironico, non é malodrammatico. E’ semplicemente allibito; trasmette il suo stato d’animo semplicemente con uno sguardo: se potesse, schermerebbe anche quell’emozione che trapela dalle sue pupille. A fine partita, l’arbitro tedesco attende il campione bavarese per chiedergli la maglia: “Ma và a dà via i ciapp!”. Il dialetto meneghino, è diventato internazionale.

*Il testo dell'articolo è di Simone Pieretti; l'immagine di AP Photo.

Giornalista, scrittore, innamorato di futbol. Scrive per trasmettere emozioni e alimentare sogni. Il calcio è una scienza imperfetta: è arte, è musica, è poesia. E' un viaggio nel tempo che ci fa tornare bambini ogni qual volta diamo un calcio a un pallone.