Nietzsche piomba sulla terra in un tardo pomeriggio autunnale. Improvviso, un freddo lancio d’agenzia proveniente dall’Argentina rimbalza in tutti gli angoli del pianeta: «Maradona è morto», che tradotto per i calciofili si legge «Dio è morto», proprio come rimirava il filosofo tedesco. O almeno, «è morto il Dio del calcio», modo in cui già pochi minuti dopo la luttuosa notizia si affrettano a ricordarlo sui social appassionati del football d’ogni sorta.

L’icona

Un Dio proveniente dalle periferie, che nasce umile e che, come in un’epica cristiana, diventa un faro sublime di luce. Una luce sportiva, s’intende, quella che ha irradiato per anni lo sport più amato facendo assurgere Maradona a paradigma stesso del gioco del calcio. Ma Maradona non è stato soltanto l’inarrivabile fuoriclasse in campo. È e resterà per sempre un’icona. La sua storia è quella di uomo che è caduto tante volte, e che tante volte si è rialzato.

 

 

È quella di un simbolo, di un calcio e di un mondo che appartengono alla storia e ai ricordi nostalgici dei non più giovani. Maradona è anche il tatuaggio del CheGuevara, l’impegno politico, una vita perennemente vissuta sopra le righe, nel bene e nel male. Tutt’altro che un irreprensibile, ma sicuramente un genuino.

Attorno alla figura di Maradona si condensano umanità e vette di divinazione semi-religiosa: gli altarini a lui dedicati nei vicoli di Napoli e i problemi con la giustizia, la folla adorante fuori la clinica in cui era ricoverato negli ultimi tempi e la partitella nel campo in terra battuta ad Acerra, ai tempi della sua militanza in maglia azzurra.

I successi

Al netto di tutto questo, sembra persino riduttivo ricordare i successi inanellati in carriera. Eppure è d’obbligo non dimenticare che è grazie a questo funambolo riccio che la città di Napoli ha potuto conoscere la gloria calcistica. Arrivato in terra partenopea nel 1984 dopo un’estenuante trattativa ingaggiata da Ferlaino con il Barcellona (13 miliardi il costo del cartellino), cucì il tricolore sulle maglie del Ciuccio in due occasioni (1987 e 1990), ma una menzione merita anche il discusso titolo perso a vantaggio del Milano nel 1988, uno dei suoi episodi topici.

Col Napoli Maradona alzò anche una Coppa Uefa nel 1989, una Coppa Italia nel 1987 e una Supercoppa Italiana nel 1990, ultima soddisfazione ai piedi del Vesuvio dopo l’abisso del doping, la squalifica e la cessione al Siviglia che chiuderà in modo tragico l’epopea del «Dio del calcio» nella città di San Gennaro.

Maradona a Stoccarda

È ancora l’assonanza con Dio che ritorna nella sua vita il 22 giugno 1986, sul campo dell’Atzeca di Città del Messico. Quarti di finale di Coppa del Mondo che vedono fronteggiarsi l'Argentina di Diego e l'Inghilterra di Lineker, mentre gli echi bellici tra i due Paesi ancora sibillano.

È in questa partita che si eleva la figura del Maradona mito. Il fermo immagine del piccolo 10 argentino che salta col pugno sinistro anticipando il portiere Shilton è come un santino degli amanti del calcio. L’astuto tocco di mano consegna il pallone in rete e regala l’1 a 0 ai bianco-celesti. È la «Mano de Dios».

Gli inglesi perdono le staffe e Maradona si esalta firmando, dopo un dribbling ubriacante, quello che molti definiscono il gol più bello nella storia del calcio. Quella «Mano de Dios» che in sessant’anni ha lasciato un segno indelebile nella storia, oggi s’è afflosciata.

E ha scelto, per congedarsi, la stessa data in cui esattamente cinquant’anni fa ci lasciava con un suicidio rituale lo scrittore giapponese Yukio Mishima. Cantore della bellezza, che viveva in maniera intensa ed eccessiva. Proprio come Maradona, quel «Dio del calcio» così umano da sembrare davvero divino.

*Il testo dell'articolo è di Federico Cenci; le foto, entrambe distribuite da AP Photo, di Carlo Fumagalli e Kienzle.

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